domenica 27 febbraio 2011

Alzati e Corri - La Regina delle Mezze

Alzati e Corri
dal divano alla Maratona in 365 giorni
Capitolo La Regina delle Mezze
    
La sveglia mise fine a una notte molto agitata, ma la notte in realtà non era ancora finita, perché fuori era ancora buio pesto. 
   
Guardai tutto il mio equipaggiamento in bella mostra sul tavolo del soggiorno e la mia attenzione si soffermò sul pettorale numero 9151, la prova che quella sfida era reale. Lasciai casa che ancora non aveva albeggiato e andai a prendere la mia amica Laura, anche lei all’esordio sulla distanza. Ci dirigemmo verso il Palasport dell’Eur, luogo del ritrovo di questa manifestazione; l’appuntamento con il gruppone orange della Podistica Solidarietà, era nei pressi dell’ospedale Sant’Eugenio. Depositammo la borsa con il cambio nei pullman organizzati dalla società, i quali poi si sarebbero diretti verso Ostia per poi attendere "speranzosi" il nostro arrivo. Quell’idea del pullman pieno che attendeva nervosamente il mio arrivo rappresentava per me un motivo di grande agitazione, ma quando raggiunsi i miei compagni di squadra cercai di mostrare il mio “sorriso migliore”, celando il mio stato di nervosismo. Del resto quei momenti di “goliardia” collettiva prima della gara dovevano essere un modo per “ricordare” a tutti, a me per primo, che al di là dei propri obiettivi personali, la corsa amatoriale era un esercizio di puro divertimento.  
  
Quel senso di ritrovata serenità non durò molto. Una volta raggiunta la “griglia di partenza” fui colto da un nuovo stato di agitazione. Mi guardavo intorno e mi sentivo assolutamente inadeguato e   continuavo a chiedermi come mi fosse venuto in mente di partecipare alla Roma-Ostia ad appena 3 mesi dal mio primo allenamento podistico, un allenamento durato appena 21 minuti. Per me la "griglia di partenza" era rovente come quella di un barbecue...e in questo caso la "carne" ero io.

Il momento dei rimpianti era però finito: ero in ballo e dovevo ballare. Anzi, per essere più preciso, ero nella griglia di partenza e dovevo partire. Ricordo ancora perfettamente il momento in cui il lungo “serpentone” dei podisti si mosse, prima lentamente e poi sempre più velocemente. Ricordo l’emozione di vedere quel fiume multicolore che scendeva verso l’Eur, mentre lo speaker "caricava" tutti con le sue parole.
   
La presenza di Laura accanto a me era al contempo motivo di tranquillità e di preoccupazione. Tranquillità perché rappresentava una presenza “amica” in una situazione “difficile”, preoccupazione perché sapevo che per arrivare ad Ostia dovevo essere molto prudente, e seguendo Laura rischiavo di farmi trascinare dal suo “ritmo”, senza dubbio più veloce del mio.  
        
Il giro all’interno dell’Eur era ormai finito ed eravamo pronti a lanciarci verso la Cristoforo Colombo.  Mi sentivo come una barca che molla gli ormeggi e si avvia verso il mare aperto, perdendo le ultime sicurezze. Il punto di non ritorno, il bivio che separava i percorsi della prova competitiva e della non competitiva, si stava avvicinando. A sinistra c’era il porto, mentre a destra c’era il mare aperto. Ignorai quella “vocina interiore” che mi consigliava di tornare al molo e mi diressi verso il mare aperto, verso la Cristoforo Colombo, verso Ostia.
   
Trascinato dal "serprentone" mi ritrovai sulla Cristoforo Colombo, ma per la prima volta nella mia vita senza un mezzo motorizzato. Laura accese il suo iPod e smise di parlare. Io approfittai della situazione per lasciarla andare e continuare da solo la mia avventura. 
  
Le cose procedevano così come le avevo immaginate nelle mie “visualizzazioni” notturne.  Affrontai  la temibile salita del “campeggio”  senza particolari sofferenze e senza smettere di correre. Arrivato in vetta alla salita ebbi un momento di incertezza, quando il mio sguardo vide il tracciato che ancora mi separava dall’ambito traguardo: una lingua di asfalto immersa tra gli alberi che sembrava non finire mai. 
   
Feci un rapido check-up mentale, il cui esito risultò soddisfacente. Nonostante avessi raggiunto e superato la distanza limite di 10 km, mi sentivo ancora discretamente bene.  Raggiunsi anche il secondo ristoro, e mi inoltrai verso il mio prossimo obiettivo: il ristoro del 16°. Sapevo che quello era un passaggio dirimente, perché oltre quel punto nessuno mi avrebbe più potuto fermare.   
 
La stanchezza mi colse all’improvviso facendomi vacillare. Cercavo con lo sguardo la bandiera che segnalava il chilometro successivo. Ecco il 13’, poi il 14’, il 15’ e finalmente il 16’. A meno di mezzo chilometro di distanza potevo vedere la presenza degli addetti al ristoro. A 100 metri dalla meta cominciai a camminare. Presi acqua, Sali minerali e soprattutto alcuni spicchi di arancia, che mi regalarono un senso di autentico sollievo.
  
Ripresi a correre, superando la bandiera del 17’ chilometro e cercando visivamente quella del 18’. Il tempo sembrò fermarsi e le distanze allungarsi, la testa cominciava a ribellarsi e a dare chiari segnali di cedimento. Superai la bandiera del 19’ chilometro mentre la strada tornava a salire, un falsopiano inatteso e mai visualizzato, che rischiava di mandare in crisi le mie strategie. Le gambe erano sempre più pesanti ma resistetti alla tentazione di smettere di correre perché sentivo che la destinazione si stava avvicinando inesorabilmente. Le grida di incoraggiamento delle persone che si trovavano ai lati della Colombo, sempre più numerose mi fornivano delle dosi di energia supplementare con le quali mi trascinavo avanti, ancora avanti, fino a raggiungere la bandiera del 20’ chilometro.
  
Raggiunsi la vetta del falsopiano e davanti ai miei occhi si spalancò l’immagine del mare aperto, che stavolta non rappresentava l’ignoto, ma la certezza di aver raggiunto la meta. In quel momento un urlo improvviso mi distolse dai miei pensieri. “Dai Maurizio, ce l’hai fatta” , era la voce del Presidente Pino Coccia, che mi guardava da dietro il suo obiettivo. Era lì, su un lato della strada a fotografare tutti gli atleti della Podistica Solidarietà che arrivavano al traguardo.
   
Ancora oggi rivedo con piacere quelle foto, soprattutto quel sorriso che esprimeva un grande gioia, la gioia di avercela fatta. Avevo “sofferto” molto per arrivare a quel punto, ma la soddisfazione di aver raggiunto quel risultato aveva spazzato via tutto. 
   
Iniziai l’ultimo tratto, psicologicamente complesso, perché prima di arrivare al traguardo era necessario fare un ampio giro sul lungomare, voltando inizialmente le spalle al traguardo per poi invertire la marcia. Guardai il traguardo avvicinarsi con un senso di grande emozione che si trasformò in commozione quando il mio sguardo si alzò verso il cielo e il mio pensiero andò inevitabilmente ai miei genitori. 
   
Ce l’avevo fatta, avevo affrontato le mie paure, i miei limiti fisici e mentali e...avevo vinto. La medaglia che un componente dello staff mi mise al collo, fu il segnale tangibile della mia “riscossa”: ero passato, in soli 3 mesi, dal divano al traguardo della Roma-Ostia, di una mezza Maratona, correndo ininterrottamente per 21.095 metri.
  
Il mio ultimo incubo svanì quando raggiunsi i pullman della Podistica Solidarietà. Gli atleti orange erano ancora tutti a terra a commentare le loro prestazioni. Non c’era nessuno ad aspettarmi nervosamente e non ero neanche l’ultimo atleta in canottiera orange ad arrivare al traguardo. Fui accolto da grandi sorrisi e da pacche sulle spalle. In quel momento ero al settimo cielo, e sempre più “impallinato” per la corsa.
   
Ero ancora distrutto, ma nella mia mente già affiorava la voglia di tentare una nuova sfida!
     
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