lunedì 2 agosto 2010

Alzati e Corri - La mia "tendenza"

Alzati e Corri
dal divano alla Maratona in 365 giorni
Capitolo La mia "tendenza"
  
Prima di comprendere meglio l’evoluzione di questo fermento, facciamo una piccola riflessione sulle mie “rotondità” e su questa mia tendenza a perdere il controllo del fattore nutrizionale avvitandomi in un processo di “lievitazione”. Anche perché questa è la questione ancora aperta al momento che mi accingo a scrivere questa storia.
   
Oggi posso dire di aver migliorato il mio “stile di vita” grazie alla passione della corsa, ma non posso ancora affermare di avere raggiunto un adeguato equilibrio alimentare.
   
A volte mi chiedo da dove possa trarre origine questo approccio compulsivo con cui in alcuni periodi mi rapporto con il cibo; una sorta di pensiero fisso che non mi molla mai e che prende spesso il sopravvento sulla mia forza di volontà. Sono quei momenti in cui prendo d’assalto il frigorifero, in cui cerco negli angoli più remoti della casa qualcosa di commestibile colto da un “desiderio” inarrestabile. Sono i periodi che fanno da contraltare ai periodi in cui divento estremamente rigido e attento alle regole imposte dalla dieta del momento. Non vorrei essere nei panni del mio metabolismo costretto a convivere con le mie due “personalità”, quella viziosa e continuamente bramosa di cibo, e quella più virtuosa.
    
Quando rifletto su questo argomento la mia mente torna indietro negli anni, e va a scavare nella mia infanzia, perché nulla mi può levare la convinzione che il mio approccio smodato verso il cibo non sia altro che una forma di gratificazione legata a un periodo ormai lontano della mia vita. Sono ormai giunto alla conclusione che il problema dell’obesità che caratterizza la società contemporanea sia anche figlio della fame patita dai nostri genitori soprattutto in tempo di guerra e nell’immediato dopo guerra.

 
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L’acqua calda scorre nella vasca creando nuvole di vapore intorno a me, il bagno è un rito divertente, sempre prodigo di sorprese.
     
Le occasioni di gioco sono infinite, come quella di scrivere con le dita sullo specchio appannato o come quella di cercare di battere il record di bolle prodotte gettando quantità industriali di bagno schiuma Vidal direttamente sotto il getto dell’acqua. 
   
Mia madre si sgola cercando di evitare il peggio, come l’effetto tsunami prodotto dai miei tuffi dentro la vasca. L’effetto è comunque caloroso e accogliente, ma oggi c’è qualcosa che non va, qualcosa che accade sempre più spesso ultimamente.

  
Osservo il volto triste di mia madre. Una lacrima scorre sul suo volto e cade a terra, confondendosi con l’effetto bagnato prodotto dai miei giochi. So di essere io la colpa di quella sua disperazione, anche se non ho fatto nulla per provocarla. Mentre osserva il mio fisico immerso nell’acqua il senso di disperazione cresce e le lacrime aumentano fino a diventare un ruscello, e poi un torrente impetuoso.

   
Si accorge del mio sguardo interrogativo e cerca di rassicurarmi: “sbrigati, qui dentro fa troppo caldo, mi sudano anche gli occhi”.

  
Anche io mi rattristo, assumo la consapevolezza che sono proprio io la causa della sua tristezza. Sono le costole che mi spuntano dalla pelle, sono le gambe e le braccia magre, sottili come stecchini, che la fanno piangere.


La mia eccessiva magrezza rievoca periodi bui della sua vita, quando la fame era una costante con cui convivere. Si sente una madre fallita per non essere riuscita a nutrirmi a dovere, per non essere mai riuscita a vincere la mia naturale inappetenza, per non essere riuscita a convincermi a mangiare a sufficienza. 

"Ora un boccone per papà, da bravo. Ora uno per zio Marco. Un altro cucchiaio ancora, altrimenti non ti faccio scendere. Se non mangi un altro po’, oggi niente Via Ponza”.

E poi c’era il resoconto serale a mio papà che tornava stanco da lavoro: “anche oggi non ha finito la pasta, anche oggi ha fatto i capricci, anche oggi...”. Mio padre distrutto da una giornata spesa a negozio mi guardava implorante mentre addentava il suo pasto serale. Ce l’aveva con me non perché fosse così preoccupato delle mie condizioni fisiche (“Di fame non è mai morto nessuno...”) ma piuttosto perché era costretto a sopportare questa litania serale.

Non c’era dubbio: la strada della mia gratificazione passava per il cibo, per la necessità di iniziare ad ingozzarmi, di ripulire quello stramaledetto piatto senza lasciare traccia del suo contenuto. Questa convinzione continuava a crescere nella mia testa anno dopo anno, andando a scalfire la mia naturale scarsa propensione al cibo.
  
Così come si rafforzava l’associazione tra il concetto di il bene che si esprimeva nel mangiare e tanto, e il concetto di male che si concretizzava nel rifiuto del cibo, nel dire sempre “NO” ad ogni offerta materna. Fino a quando avrei seguito le mie inclinazioni naturali che mi portavano a mangiare “come un uccelletto” (una delle espressioni preferite da mia madre), rifiutando di incamminarmi in un percorso di redenzione? 
  
Tutto avvenne in quel periodo che oggi viene classificato come “adolescenza”, ma che allora veniva definito periodo dello “sviluppo”, con una decisa connotazione sessuale. I miei 13 anni o giù di lì, quando iniziai a stupire mia madre arrivando a svuotare il piatto oppure a pronunciare quelle fatidiche frasi che rendono contentissime le mamme: “Mamma, ho fame”, “Mamma, è pronto?”.

  
Da quel momento la mia vita è stata una lenta trasformazione da una condizione di magrezza assoluta, quella che comporta espressioni tipo “ma non ti vedi, sei tutto pelle e ossa”, ad una condizione di sovrappeso, che comporta espressioni tipo “ammazza quanto ti sei ingrassato”, tutte espressioni che denotano grande sensibilità da parte dell’interlocutore.
  
La lentezza della trasformazione rappresentò di fatto un’aggravante, perché per lungo tempo sottovalutai il fenomeno che del resto aveva anche i suoi risvolti positivi. E poi il mio “entourage”, ovvero i miei parenti più stretti, sembravano entusiasti di questa mio cambio netto nel rapporto con il cibo.  La fame era sempre più incontrollabile e la ricerca del cibo cominciava ad essere spasmodica. Tutti coloro che mi stavano intorno tendevano ad approfittarsi di questa nuova condizione ed erano sempre pronti ad assecondare ogni mio desiderio. Le loro attenzioni sembravano un modo di vendicarsi di tutte le sofferenze che avevo creato loro con il mio ostinato rifiuto del cibo negli anni precedenti.
     
In quel periodo cominciai a sperimentare un gesto che avrebbe accompagnato il resto della mia esistenza: l’apertura del frigorifero, la quale precede una rapida scansione del suo contenuto. Questa operazione è chiaramente necessaria per preparare l’azione successiva, che consiste nella scelta e nel prelievo di qualcosa di appetitoso. La rapidità di esecuzione è una sorte di condizione necessaria per evitare di “dare nell’occhio”, per impedire agli altri di monitorare questi anomali comportamenti.
L’istinto predatorio che stava crescendo dentro di me si predisponeva alla fase successiva, quella in cui gli attacchi al frigorifero avrebbero assunto una forma clandestina e quindi era necessario sviluppare fin da allora tecniche efficienti con le quali riuscire a prelevare dal frigorifero e consumare cibo senza farsi notare. E non si tratta di un’operazione banale perché il cibo non è lì, pronto e disponibile per essere consumato. Si trova spesso mimetizzato, rinchiuso in contenitori o in confezioni difficili da aprire e da raggiungere a causa di una disposizione realizzata con il chiaro intento di ostacolare quelle spedizioni. Per questo è necessaria una sofisticata fase di addestramento sin dalla prima comparsa di questi fenomeni compulsivi.

  
In quel particolare periodo della mia vita arrivai a scoprire una varietà di alimenti e di piatti che fino a quel momento non avevo mai neanche preso in considerazione come tali e che ritenevo non avessero diritto di appartenere alla lista delle cose commestibili.  Diventai un appassionato di tutti quei cibi industriali che finivano per “ini”, che dominavano incontrastati negli scaffali dei supermercati, nei cartelloni pubblicitari e nelle pubblicità televisive, con immagini che evocavano sempre uno stato di felicità e di benessere. La desinenza “ini” del resto identifica sempre qualcosa di piccolo, grazioso, qualcosa di innocuo, e quindi nella mia testa si rafforzava la convinzione che nessuna di quelle scatole così vivacemente colorate avrebbe mai potuto costituire un pericolo per la mia salute.

  
E’ vero che in quel periodo introdussi nel mio regime dietetico anche le “verdure”, quella categoria di cibi che nella mia fase precedente avevo etichettato come “erba”, buona per le capre. Ma in ogni caso, il contorno, patate a parte, restava un elemento marginale del mio nuovo regime alimentare: un elemento di “contorno”.

  
Del resto non c’era nulla di cui preoccuparsi, in fondo, nonostante non avessi più quell’aspetto “pelle e ossa” dei miei primi 10 anni di vita, rientravo sempre nella categoria dei magri.

   
Un professore di Educazione Fisica delle superiori tentò di far scattare in me un campanello di allarme. Alla fine di un allenamento di corsa nello stadio della Farnesina verificò la consistenza del mio giro vita e mi fece notare che c’era qualcosa di distonico rispetto al resto del mio fisico, prevedendo un futuro non molto roseo per il mio stato di forma.

 
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domenica 1 agosto 2010

Alzati e Corri - Il divano

Alzati e Corri
dal divano alla Maratona in 365 giorni
Capitolo - Il divano
   
Ho scoperto la corsa alla “tenera età" di 46 anni dopo aver attraversato un periodo molto delicato della mia vita, un periodo particolarmente stressante che aveva messo in discussione molte delle mie certezze e mi aveva costretto ad abbandonare ogni area di conforto in cui avevo precedentemente vissuto.
   
Avevo nonostante tutto reagito bene, ma a pagare questa situazione di stress era stato il mio fisico che aveva raggiunto livelli record di “rotondità”.  Non riuscivo più a controllare la mia alimentazione e andavo soggetto ad attacchi di bulimia che si scatenavano nelle ore notturne.
   
La sera “crollavo” letteralmente sul divano, che era diventato il mio più caro compagno di vita, l’unico luogo dove riuscivo a sentirmi veramente a mio agio, mettendo da parte i pensieri negativi e le paure che caratterizzavano la mia “nuova” quotidianità.
  
In quel periodo la mia principale attività fisica era costituita dai passaggi repentini dal divano al frigorifero, e dal frigorifero al divano: senza alcun dubbio, uno “sport” dove le calorie in entrata superavano di gran lunga quelle in uscita.
 
Non riuscivo a uscire da questo circuito vizioso, anche perché avevo una dotazione di alibi che compensavano i miei continui “sensi di colpa”, soprattutto relativamente all'assenza di una minima attività fisica. Il principale tra gli alibi che si adottano in queste situazioni è “non ho tempo” per poi rafforzarlo con un “sono troppo stanco”. 
 
Durante il soggiorno estivo nel mio paese di origine, Raggiolo, mi ero imposto delle lunghe passeggiate mattutine, stimolato in questo impegno dalla compagnia di familiari e amici. Tutte le mattine un’allegra brigata lasciava il paese per “avventurarsi” nei sentieri boschivi che lo circondano. Questo momento di “rinnovata” energia mi aveva fatto ben sperare, e una volta tornato a Roma, avevo tentato di dare continuità a questo atteggiamento positivo.
   
La “determinazione” ritrovata aveva lentamente lasciato il passo alla solita pigrizia e dopo un mese ero ritornato al punto di partenza. Forse non del tutto, perché in fondo, ma molto in fondo, qualcosa si stava agitando. Non potevo trattare in quel modo il mio fisico, accettare quello stato di malessere che stava diventando abituale, e dovevo anche considerare che sulla mia testa pendeva un’inquietante storia familiare.
  
Non mi riferisco a nulla di scabroso ma alla storia cardiologica della mia famiglia paterna che aumentava notevolmente i fattori di rischio per la mia salute. E sorvolo su tutti quei parametri che renderebbero particolarmente noiosa questa “narrazione”, quelle cose che rispondono a nomi tipo colesterolemia, ipertensione, glicemia, anche perché riuscivo a controllare questi parametri con un approccio molto astuto, evitando di farmi controllare da chicchessia.
   
Insomma, una reazione era necessaria e nel mio io profondo, ma molto profondo, qualcosa stava fermentando: serviva un elemento catalizzante in grado di trasformare questo fermento in qualcosa di solido e duraturo.
      
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