lunedì 29 novembre 2010

Alzati e Corri - L'abito fa il monaco

Alzati e Corri
dal divano alla Maratona in 365 giorni
Capitolo L'abito fa il monaco
  

Le parole del mio amico avevano lasciato una traccia dentro di me. Mi ero convinto che non potevo proseguire senza un equipaggiamento idoneo. Dovevo trasformarmi almeno simbolicamente in un runner, come un bruco che esce dal bozzolo e diventa farfalla. Avevo bisogno di un abbigliamento adatto e di un paio di scarpe "da corsa".  
 
Non ero ancora pronto a confrontarmi con un negozio specializzato nella corsa e quindi cercai di fare un corso accelerato su Internet. Mi recai in un megastore sportivo dove avrei potuto selezionare del materiale adeguato, mantenendo al contempo un certo livello di anonimato. Non avevo voglia di sentirmi pressato nelle mie scelte, preferivo valutare con calma, acquisendo maggiore consapevolezza sull'offerta di materiale tecnico.
 
Se oggi dovessi dare un consiglio ad un neofita gli suggerirei di rivolgersi subito a un negozio specializzato nel settore running, facendosi supportare da un esperto della materia, in modo da essere immediatamente indirizzato verso le più corrette soluzioni.  Ma allora non mi sentivo ancora pronto per quel passaggio.
  
Per me il vero scoglio da superare fu rappresentato dalla scelta dei pantaloni o per essere più corretti dalla scelta dei "collant da running". Mentre osservavo i modelli esposti, scrollavo la testa e pensavo che non avrei avuto mai il coraggio di indossare un "capo" così attillato. Tutto ciò sembrava superare i limiti del mio "senso del ridicolo". La commessa del negozio, compreso il mio imbarazzo, mi suggerì di provarli, cosa che feci con grande riluttanza. Una volta indossati tentati di osservarmi allo specchio, ma il mio "senso del ridicolo" continuava a ribellarsi. Improvvisamente nella mia testa si materializzò la soluzione. Da buon "pallonaro" avrei adottato il "metodo classico", quello di mettere dei pantaloncini da calcio sopra il "collant"...in quel momento mi apparve come un compromesso accettabile. 
 
Superato l'ostacolo "collant" mi inoltrai nella scelta più delicata, quella delle scarpe. Usai un metodo che avrebbe scatenato le proteste dei "puristi" della corsa. Feci infatti una scelta molto poco tecnica, incrociando tre criteri: un criterio estetico, un criterio economico e poi un criterio basato sulla fiducia nelle descrizioni riportate sui cartellini che descrivevano i prodotti esposti sugli scaffali. Alla fine di questo personale processo di selezione, la mia scelta cadde su un bellissimo paio di New Balance di colore grigio argento, con finiture rosse. Quelle New Balance mi avrebbero accompagnato per alcuni mesi, fino alle soglie della Maratona, ma non avrei mai confessato il metodo "personale" con cui l'avevo scelte.
 
Tornai a casa visibilmente soddisfatto dei miei acquisti che rafforzavano la mia determinazione a proseguire nel programma di allenamento.  In tutte le situazioni della vita, a differenza di quanto sostiene il proverbio, l'abito fa il monaco, o quanto meno l'abito ti fa sentire un monaco e ti conferisce maggiore determinazione. L'unica cosa che mi disturbava un po' erano i "collant", ma il compromesso che avevo ideato mi restituiva un sufficiente grado di tranquillità.
 
Oggi, se potessi tornare indietro avrei fatto scelte diverse, soprattutto avrei scelto materiale più leggero. Uno degli errori tipici di un neofita che comincia a correre di inverno è quello di coprirsi troppo. Il freddo che si prova uscendo da casa, dura per poche centinaia di metri e da quel momento in poi la sensazione di calore prodotta dallo sforzo fisico influisce negativamente sulla prestazione. L'unica parte del corpo difficile da scaldare sono le mani, per cui nelle giornate più fredde può essere preferibile indossare un paio di guanti, anche se rimane sempre una scelta soggettiva. 
 
Sorrido sempre quando vedo quelle persone che corrono al parco vestiti come degli esquimesi, per non parlare di quelli che indossano il K-Way. Molti di loro sono condizionati da antichi luoghi comuni dello sport, illudendosi quindi di perdere peso attraverso l'abbondante sudorazione, Ignorano che si tratta di un risultato effimero. La perdita di peso generata dall'abbondante sudorazione si recupera alla prima bevuta e quindi il sacrificio è assolutamente inutile.

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sabato 27 novembre 2010

Alzati e Corri - Mi raccomando...le scarpe!

Alzati e Corri
dal divano alla Maratona in 365 giorni
Capitolo Mi raccomando...le scarpe!
 
Ero molto soddisfatto di quel primo allenamento e una sorta di entusiasmo stava crescendo in me. Durante quel sabato il mio pensiero andò molto spesso alle sensazioni provate durante quei 21 minuti.
 
La sera ne parlai con un amico che aveva il "vizio della corsa" e come tutti i "drogati di questa disciplina" mi travolse con i suoi racconti e soprattutto con la descrizione delle sue performance. Allora non potevo afferrare il senso dei suoi "4.00 a km", ma il suo entusiasmo non arginabile risultò contagioso rispetto al mio.
 
Poco prima del congedo mi fece una domanda scabrosa: "con che scarpe hai corso?". Cercai di cambiare argomento, ma un runner non molla mai sulla questione delle scarpe. Confessai di essermi allenato con un paio di scarpe da ginnastica qualsiasi, esponendomi al suo deciso rimprovero e alla descrizione di tutti i possibili infortuni a cui andavo incontro. In quel momento mi tornarono in mente le raccomandazioni di Max, codificate anche nella sua tabella di allenamento. Mi sentivo un po' meno entusiasta e un po' più angosciato.
 
Quando ci salutammo il mio amico mi salutò con un secco: "mi raccomando...le scarpe!".
 
Questa frase è stata quindi una sorta di “leit motiv” che ha accompagnato il mio approdo al podismo. Sin dalla prima sessione di allenamento, mi sono sentito ripetere questa raccomandazione: “c’è una sola cosa importante nella corsa… le scarpe!”.
  
Dopo una ventina di giorni che mi allenavo, preparandomi all’esordio nella “Corsa di Miguel” sono stato afflitto da un dolore insistente al ginocchio che è scomparso solamente dopo un paio di settimane. In quel periodo mi sono consigliato con altri podisti più esperti di me e tutti mi hanno ripetuto la solita domanda: “ma che scarpe usi?”.  
 
Inutile dire loro che le mie erano scarpe di livello, scelte con accuratezza sulla base del mio stile di corsa, delle mie caratteristiche fisiche; la perplessità rimaneva leggibile negli sguardi dei miei interlocutori oppure nei silenzi che intercorrevano nelle telefonate.
  
Prima della Roma-Ostia chiamai un mio amico che faceva servizio volontario nella Croce Rossa, per sapere se fosse presente nel percorso e magari a quale chilometro; seguendo una tipica abitudine italiana avevo pensato che una raccomandazione alla Croce Rossa non facesse poi così male. Chiaramente si trattava di un modo scherzoso di esorcizzare la mia tensione della vigilia. Il mio amico confermandomi la presenza mi dava il suo consiglio da esperto: “mi raccomando, scarpe e calzini buoni, altrimenti ti riempi di vesciche”.
 
Praticamente un’ossessione!
  
Ogni volta che sentivo ripetere questa frase mi tornava alla mente una storia che mi raccontava mio zio, quando ero bambino. Era la storia di un’atleta etiope che nel 1960 aveva vinto la Maratona olimpica di Roma correndo scalzo. Si trattava del mitico Abebe Bikila. La sua fu una grande impresa anche perché era il primo atleta africano ad aggiudicarsi una medaglia d’oro olimpica.
   
Molti hanno di questa atleta un’immagine falsata, di uno sprovveduto che non conosceva l’uso delle scarpe, anche per l’atteggiamento della stampa di allora. Invece si trattava di un’atleta molto accorto, che decise di correre scalzo per una precisa scelta tecnica concordata con il suo allenatore, lo svedese Niskanen, anche per riprodurre il suo tipico stile di allenamento. Interrogato su questa curiosa scelta alla fine della gara, l’etiope rispose in modo abilmente retorico: “Ho voluto che il mondo sapesse che il mio Paese, l’Etiopia, ha sempre vinto con determinazione ed eroismo.”
  
Bikila chiuse la Maratona di Roma con il tempo di 2h 15’ 16”, nuovo record del mondo. Un grande atleta che quattro anni dopo, all’Olimpiade di Tokyo, bissò il suo successo, correndo stavolta con un paio di scarpe. Il vincitore della Maratona di Roma 2010, Siraj Gena, per onorare i 50 anni dalla vittoria delle Olimpiadi del 1960 decise di tagliare il traguardo senza scarpe.
  
Sono andato un po' avanti, introducendo il problema al ginocchio e la Roma-Ostia. Torniamo indietro al primo allenamento e al problema delle scarpe. Quella sera avevo preso coscienza di un problema che rischiava di troncare sul nascere la mia "carriera" podistica.  
 
Il giorno dopo avrei affrontato il problema delle scarpe.
 
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Alzati e Corri - Il primo allenamento

Alzati e Corri
dal divano alla Maratona in 365 giorni
Capitolo Il primo allenamento
 
E così eccomi lì, intenzionato a provare una "nuova strada" per ritrovare il mio benessere.
 
Allora non avrei potuto immaginare che, in quella direzione, avrei fatto così tanta strada. Chilometri e chilometri, nel tentativo di "stare bene", sia fisicamente sia psicologicamente, perché se si vuole ottenere un risultato consolidato, la dimensione fisica e quella psicologica devono svilupparsi in modo equilibrato. Non avrei mai creduto che la corsa mi sarebbe "entrata dentro" in quel modo, diventando un riferimento costante della mia vita.

Anzi, se proprio la vogliamo dire tutta, mi accingevo a fare quel tentativo, pensando a uno dei miei tanti tentativi fatti nella stessa direzione. Devo dire che nella mia vita le avevo provate un po' tutte per sentirmi meglio, dalle discipline sportive più disparate ai regimi alimentari più sconosciuti. Tra i miei amici ero famoso per le mie "infatuazioni" ma non certo per la costanza con cui perseguivo questo grande obiettivo.  Mi avvicinavo alla corsa con lo stesso approccio e quindi anche con lo stesso disincanto che ormai avevo maturato negli anni. 

Ma torniamo alla tabella di allenamento. Come tutto ciò che può essere classificato come un "buon proposito", anche il programma ricevuto da Max era strutturato in settimane e quindi per iniziare di "lunedì". Però, e questa era una vera anomalia, prevedeva un allenamento facoltativo da effettuarsi nel weekend precedente, e considerato che nella tabella veniva imposta la logica dell'alternanza dei giorni di allenamento e di riposo, quell'allenamento facoltativo non poteva che essere svolto di sabato.
 
Va detto che la tabella era veramente "subdola", perché al suo interno era strutturata per fornire una risposta a tutti gli alibi che tipicamente abbondano nella mente del divanista. I primi allenamenti erano molto brevi e a bassa intensità e poi veniva fortemente sconsigliato qualsiasi comportamento "eccessivamente sportivo". Nelle pagine che costituivano il programma di allenamento Me-Up abbondavano frasi come: "non andare mai oltre i tempi e i ritmi consigliati...", "non fare mai due giornate di allenamento consecutive...". Insomma quella tabella di allenamento era maledettamente "rassicurante" anche per uno che come me non pratica sport da molti anni.
 
Dopo aver letto e riletto i contenuti di quella tabella e nonostante il mio tormento interiore, decisi che sabato 27 novembre sarebbe stato "il grande giorno", il giorno in cui avrei iniziato la mia nuova avventura.
 
La parte razionale della mia mente tentò un ultimo estremo atto di resistenza: venerdì sera mi resi infatti conto che non avevo un equipaggiamento adatto allo scopo. Mi recai in cantina alla ricerca di materiale sportivo adeguato, forse con la speranza interiore di fallire e di dover rimandare ancora l'appuntamento fatale con la corsa. La mia cantina è una specie di "museo delle occasioni fallite" e in mezzo alle tante cose inutili che ne saturano gli spazi, è infatti possibile reperire un equipaggiamento specializzato per ognuna delle discipline sportive previste dalla lista degli sport del Comitato Olimpico, a parte la corsa.
 
La tabella non dava peso alla questione dell'equipaggiamento, tranne che per le scarpe, che rappresentano una vera ossessione all'interno della comunità podistica. Secondo questa forma di ossessione, correre anche solo 10 minuti senza avere una scarpa adatta al proprio fisico e alla propria postura significa compromettere per sempre le proprie capacità deambulatorie. 
 
Cercavo di richiamare le decine di consigli che avevo trovato su Internet, mentre scartavo la maggior parte degli indumenti che uscivano fuori dalle decine di borsoni che popolano la mia cantina e che ormai sono un tutt'uno con essa. Scartai le polo tennistiche, le scarpe da golf, i k-way multidisciplinari, rassegnandomi infine a ricorrere alla mia dotazione "calcistica". Un "pallonaro" come me alla fine non poteva che sentirsi maggiormente a suo agio con il materiale tipico di questo sport. 
 
Tranne che per le scarpe, selezionate tra le decine di paia di scarpe da ginnastica che ormai risiedevano in stato di abbandono nella mia cantina, il resto dell'abbigliamento scelto era una selezione un po' accozzagliata del mio passato calcistico. E non mi feci mancare neanche uno dei principali abbinamenti preferiti dal "calciatore in allenamento": il pantaloncino da calcio sopra la "mezza tuta". Ricorsi anche al "mitico" cronometro che aveva accompagnato la mia esperienza di "dirigente accompagnatore", un cronometro con per le sue dimensioni extra-large non sembrava così adatto a scandire i tempi della mia esperienza podistica.
  
Il mio equipaggiamento era molto arrangiato, ma in fondo anche l'ultimo dei miei alibi era crollato: il 27 novembre del 2010 entravo nel Parco delle Sabine per il mio primo allenamento podistico.
  
Un minuto di corsa e due di camminata veloce da ripetere sette volte, per un totale di 21 minuti di allenamento. Affrontai la prova in "scioltezza" anche se trovai conferma di tutte le teorie sulla relatività del tempo: il minuto di corsa era infatti molto più lungo dei due minuti di camminata veloce, maledettamente rapidi.  
 
Alla fine dell'allenamento mi resi conto con piacere di essere nelle condizioni di fare ancora qualche ripetizione, ma il diktat previsto dalla tabella risuonò forte nella mia mente: "Non andare mai oltre i tempi e i ritmi consigliati!!!", e quindi me ne tornai a casa con un passo così lento da non lasciare dubbi sul fatto che la mia sessione di allenamento fosse già terminata.
 
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giovedì 18 novembre 2010

Alzati e Corri - La scossa

Alzati e Corri
dal divano alla Maratona in 365 giorni
Capitolo La scossa
 
 
Ritorniamo a quel fermento che covava nel mio "io" più profondo, così profondo da restare dentro di me senza emergere e trasformarsi in un azione concreta che restituisse dinamicità al mio fisico.
 
Serviva quindi un fattore scatenante in grado di attivare una reazione energetica che mi consentisse di superare il mio stato di inerzia e di sollevarmi definitivamente dal divano.
 
Il fattore scatenante fu rappresento da una persona in carne e ossa, un collega di lavoro che per pura passione aveva intrapreso un percorso da “motivare”: Max Monaco, ideatore del progetto MeUp (oggi evoluto nel progetto 6più). Questo progetto trovava la sua concretizzazione in un seminario motivazionale che usava la corsa come stimolo per rimettersi in gioco, abbandonando quelle che Max definiva le convinzioni limitanti.
 
E così il 18 novembre del 2010 mi ritrovai quasi per caso in una enorme sala gremita di gente a seguire la performance di Max “il motivatore”. La mia partecipazione fu caratterizzata da un certo scetticismo, tipico di una mente razionale come la mia, troppo razionale per lasciarsi coinvolgere in quella che all'apparenza sembrava quasi una terapia di gruppo. A onor del verso devo dire che alcune parti del programma avevano attirato la mia attenzione, ma non furono sufficienti ad abbattere completamente le mie barriere difensive.
 
Ogni tanto Max richiamava questa sfida podistica che consisteva nella partecipazione ad una gara di 10 km, rafforzando ulteriormente il mio sistema difensivo. Max affermava che per raggiungere l’obiettivo sarebbero stati sufficienti solo due mesi di preparazione, perdendo ai miei occhi molta della credibilità che aveva acquisito nella parte iniziale del seminario. In quel momento nella mia testa 10 km di corsa corrispondevano in termini di difficoltà alla scalata del Monte Everest, un’impresa al di fuori della mia portata. Pensare di scalare il Monte Everest con due mesi di preparazione era un’assurdità e in quel momento Max, più che un motivatore, mi sembrava un millantatore, uno spacciatore di illusioni. Anche la proiezione di immagini che rappresentavano persone comuni che avevano tagliato quel fatidico traguardo rafforzate dalle testimonianze in sala, non erano state sufficienti a convincermi della fattibilità del progetto.
 
E poi avevo tutto il “rosario” dei mie alibi da utilizzare, a partire dal più efficace di tutti, quel “non ho tempo” che escludeva ogni possibilità di replica.
 
Alle mie spalle era seduto un mio ex collega che sembrava avesse deciso di recitare il ruolo del “grillo parlante”. Ogni volta che Max ritornava a parlare della sfida podistica, il "grillo parlante" si avvicinava al mio orecchio per sussurrarmi un “dovresti provarci”.
 
Devo precisare che la gara prescelta da Max per questa sfida era la “Corsa di Miguel”, una corsa che aveva un elevato valore simbolico essendo dedicata alle vicende di un ragazzo argentino che per la sua voglia di libertà era diventato una vittima del sanguinario regime di Jorge Rafael Videla, diventando uno dei tanti “desaparecidos”.  Conoscendo bene le mie idee e i miei valori, il "grillo parlante" usava argomentazioni ancora più subdole per indurmi a partecipare, giocando sulle mie emozioni. Ad un certo punto mi ritrovai a pensare che fosse pagato da Max come reclutatore di vittime innocenti da asservire alla sua causa.
 
Comunque per evitare eccessivi coinvolgimenti abbandonai il seminario poco prima che si passasse ad illustrare il programma di allenamento. Quella parte non mi riguardava. Almeno così pensavo in quel momento, ignorando che ormai il virus della corsa mi era stato inoculato e che sia ”il motivatore” sia “l’agente reclutatore” avevano ottenuto il loro obiettivo, e una nuova anima dannata era destinata a finire nel “girone dei runner”.

Passai un weekend nel mia solito stato di inquietudine, quello che si impadronisce di me tutte le volte che una nuova idea comincia a farsi strada e a prendere il sopravvento. Il lunedì mattina feci una mossa che sarebbe risultata decisiva, anche se continuavo a negarlo pure a me stesso. Inviai una mail al “motivatore” chiedendogli di poter vedere la tabella di allenamento...ma solo per curiosità.
 
Per tutta risposta ricevetti una mail che conteneva una sorta di “contratto morale” con il quale mi impegnavo a perseguire l’obiettivo di tagliare il traguardo di una gara di 10 km, che nel caso specifico la già citata Corsa di Miguel, nei tempi imposti dalla tabella.
 
Rimasi spiazzato e replicai a quella mail rifiutando l’accordo, e giustificando questo mio rifiuto con un elenco infinito di alibi. Utilizzai anche il “c’ho avuto la malattia…” di sordiana memoria, facendo riferimento alla malattia autoimmune che alcuni anni prima aveva attaccato duramente le mie articolazioni, creandomi seri problemi di deambulazione.
 
Quello scambio di mail sembrava mettere definitivamente la parola fine ad ogni mia ambizione podistica. Invece il “motivatore” ne sapeva una più del diavolo ed era sempre più determinato a impossessarsi della mia anima. Così nonostante il mio rifiuto a sottoscrivere “il contratto”, mi inviò una nuova mail che includeva la famosa tabella di allenamento.

Ormai il virus si era insinuato nella mia mente e mi ritrovavo spesso ad aprire e rileggere quella tabella di allenamento cercando un motivo valido per non aderire al programma, ma più la leggevo e più mi convincevo che in fondo l’impresa si poteva tentare.
 
Ripensai mentalmente alle parole della mia reumatologa, parole pronunciate tanto tempo prima, ma scolpite nella mia memoria: “Lei in futuro dovrà evitare gli sport traumatici o comunque quelli che sollecitano troppo le articolazioni, per intenderci niente calcio, tennis e soprattutto niente corsa”.
 
Allora quelle parole non mi avevano infastidito troppo, pensavo che si potesse sopravvivere senza sport, e poi la corsa non mi era mai piaciuta, l’avevo sempre trovata noiosa. Anche quando giocavo a calcio, da ragazzo, la cosa che avevo sempre odiato di più erano i “giri di campo” che precedevano ogni allenamento.
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lunedì 2 agosto 2010

Alzati e Corri - La mia "tendenza"

Alzati e Corri
dal divano alla Maratona in 365 giorni
Capitolo La mia "tendenza"
  
Prima di comprendere meglio l’evoluzione di questo fermento, facciamo una piccola riflessione sulle mie “rotondità” e su questa mia tendenza a perdere il controllo del fattore nutrizionale avvitandomi in un processo di “lievitazione”. Anche perché questa è la questione ancora aperta al momento che mi accingo a scrivere questa storia.
   
Oggi posso dire di aver migliorato il mio “stile di vita” grazie alla passione della corsa, ma non posso ancora affermare di avere raggiunto un adeguato equilibrio alimentare.
   
A volte mi chiedo da dove possa trarre origine questo approccio compulsivo con cui in alcuni periodi mi rapporto con il cibo; una sorta di pensiero fisso che non mi molla mai e che prende spesso il sopravvento sulla mia forza di volontà. Sono quei momenti in cui prendo d’assalto il frigorifero, in cui cerco negli angoli più remoti della casa qualcosa di commestibile colto da un “desiderio” inarrestabile. Sono i periodi che fanno da contraltare ai periodi in cui divento estremamente rigido e attento alle regole imposte dalla dieta del momento. Non vorrei essere nei panni del mio metabolismo costretto a convivere con le mie due “personalità”, quella viziosa e continuamente bramosa di cibo, e quella più virtuosa.
    
Quando rifletto su questo argomento la mia mente torna indietro negli anni, e va a scavare nella mia infanzia, perché nulla mi può levare la convinzione che il mio approccio smodato verso il cibo non sia altro che una forma di gratificazione legata a un periodo ormai lontano della mia vita. Sono ormai giunto alla conclusione che il problema dell’obesità che caratterizza la società contemporanea sia anche figlio della fame patita dai nostri genitori soprattutto in tempo di guerra e nell’immediato dopo guerra.

 
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L’acqua calda scorre nella vasca creando nuvole di vapore intorno a me, il bagno è un rito divertente, sempre prodigo di sorprese.
     
Le occasioni di gioco sono infinite, come quella di scrivere con le dita sullo specchio appannato o come quella di cercare di battere il record di bolle prodotte gettando quantità industriali di bagno schiuma Vidal direttamente sotto il getto dell’acqua. 
   
Mia madre si sgola cercando di evitare il peggio, come l’effetto tsunami prodotto dai miei tuffi dentro la vasca. L’effetto è comunque caloroso e accogliente, ma oggi c’è qualcosa che non va, qualcosa che accade sempre più spesso ultimamente.

  
Osservo il volto triste di mia madre. Una lacrima scorre sul suo volto e cade a terra, confondendosi con l’effetto bagnato prodotto dai miei giochi. So di essere io la colpa di quella sua disperazione, anche se non ho fatto nulla per provocarla. Mentre osserva il mio fisico immerso nell’acqua il senso di disperazione cresce e le lacrime aumentano fino a diventare un ruscello, e poi un torrente impetuoso.

   
Si accorge del mio sguardo interrogativo e cerca di rassicurarmi: “sbrigati, qui dentro fa troppo caldo, mi sudano anche gli occhi”.

  
Anche io mi rattristo, assumo la consapevolezza che sono proprio io la causa della sua tristezza. Sono le costole che mi spuntano dalla pelle, sono le gambe e le braccia magre, sottili come stecchini, che la fanno piangere.


La mia eccessiva magrezza rievoca periodi bui della sua vita, quando la fame era una costante con cui convivere. Si sente una madre fallita per non essere riuscita a nutrirmi a dovere, per non essere mai riuscita a vincere la mia naturale inappetenza, per non essere riuscita a convincermi a mangiare a sufficienza. 

"Ora un boccone per papà, da bravo. Ora uno per zio Marco. Un altro cucchiaio ancora, altrimenti non ti faccio scendere. Se non mangi un altro po’, oggi niente Via Ponza”.

E poi c’era il resoconto serale a mio papà che tornava stanco da lavoro: “anche oggi non ha finito la pasta, anche oggi ha fatto i capricci, anche oggi...”. Mio padre distrutto da una giornata spesa a negozio mi guardava implorante mentre addentava il suo pasto serale. Ce l’aveva con me non perché fosse così preoccupato delle mie condizioni fisiche (“Di fame non è mai morto nessuno...”) ma piuttosto perché era costretto a sopportare questa litania serale.

Non c’era dubbio: la strada della mia gratificazione passava per il cibo, per la necessità di iniziare ad ingozzarmi, di ripulire quello stramaledetto piatto senza lasciare traccia del suo contenuto. Questa convinzione continuava a crescere nella mia testa anno dopo anno, andando a scalfire la mia naturale scarsa propensione al cibo.
  
Così come si rafforzava l’associazione tra il concetto di il bene che si esprimeva nel mangiare e tanto, e il concetto di male che si concretizzava nel rifiuto del cibo, nel dire sempre “NO” ad ogni offerta materna. Fino a quando avrei seguito le mie inclinazioni naturali che mi portavano a mangiare “come un uccelletto” (una delle espressioni preferite da mia madre), rifiutando di incamminarmi in un percorso di redenzione? 
  
Tutto avvenne in quel periodo che oggi viene classificato come “adolescenza”, ma che allora veniva definito periodo dello “sviluppo”, con una decisa connotazione sessuale. I miei 13 anni o giù di lì, quando iniziai a stupire mia madre arrivando a svuotare il piatto oppure a pronunciare quelle fatidiche frasi che rendono contentissime le mamme: “Mamma, ho fame”, “Mamma, è pronto?”.

  
Da quel momento la mia vita è stata una lenta trasformazione da una condizione di magrezza assoluta, quella che comporta espressioni tipo “ma non ti vedi, sei tutto pelle e ossa”, ad una condizione di sovrappeso, che comporta espressioni tipo “ammazza quanto ti sei ingrassato”, tutte espressioni che denotano grande sensibilità da parte dell’interlocutore.
  
La lentezza della trasformazione rappresentò di fatto un’aggravante, perché per lungo tempo sottovalutai il fenomeno che del resto aveva anche i suoi risvolti positivi. E poi il mio “entourage”, ovvero i miei parenti più stretti, sembravano entusiasti di questa mio cambio netto nel rapporto con il cibo.  La fame era sempre più incontrollabile e la ricerca del cibo cominciava ad essere spasmodica. Tutti coloro che mi stavano intorno tendevano ad approfittarsi di questa nuova condizione ed erano sempre pronti ad assecondare ogni mio desiderio. Le loro attenzioni sembravano un modo di vendicarsi di tutte le sofferenze che avevo creato loro con il mio ostinato rifiuto del cibo negli anni precedenti.
     
In quel periodo cominciai a sperimentare un gesto che avrebbe accompagnato il resto della mia esistenza: l’apertura del frigorifero, la quale precede una rapida scansione del suo contenuto. Questa operazione è chiaramente necessaria per preparare l’azione successiva, che consiste nella scelta e nel prelievo di qualcosa di appetitoso. La rapidità di esecuzione è una sorte di condizione necessaria per evitare di “dare nell’occhio”, per impedire agli altri di monitorare questi anomali comportamenti.
L’istinto predatorio che stava crescendo dentro di me si predisponeva alla fase successiva, quella in cui gli attacchi al frigorifero avrebbero assunto una forma clandestina e quindi era necessario sviluppare fin da allora tecniche efficienti con le quali riuscire a prelevare dal frigorifero e consumare cibo senza farsi notare. E non si tratta di un’operazione banale perché il cibo non è lì, pronto e disponibile per essere consumato. Si trova spesso mimetizzato, rinchiuso in contenitori o in confezioni difficili da aprire e da raggiungere a causa di una disposizione realizzata con il chiaro intento di ostacolare quelle spedizioni. Per questo è necessaria una sofisticata fase di addestramento sin dalla prima comparsa di questi fenomeni compulsivi.

  
In quel particolare periodo della mia vita arrivai a scoprire una varietà di alimenti e di piatti che fino a quel momento non avevo mai neanche preso in considerazione come tali e che ritenevo non avessero diritto di appartenere alla lista delle cose commestibili.  Diventai un appassionato di tutti quei cibi industriali che finivano per “ini”, che dominavano incontrastati negli scaffali dei supermercati, nei cartelloni pubblicitari e nelle pubblicità televisive, con immagini che evocavano sempre uno stato di felicità e di benessere. La desinenza “ini” del resto identifica sempre qualcosa di piccolo, grazioso, qualcosa di innocuo, e quindi nella mia testa si rafforzava la convinzione che nessuna di quelle scatole così vivacemente colorate avrebbe mai potuto costituire un pericolo per la mia salute.

  
E’ vero che in quel periodo introdussi nel mio regime dietetico anche le “verdure”, quella categoria di cibi che nella mia fase precedente avevo etichettato come “erba”, buona per le capre. Ma in ogni caso, il contorno, patate a parte, restava un elemento marginale del mio nuovo regime alimentare: un elemento di “contorno”.

  
Del resto non c’era nulla di cui preoccuparsi, in fondo, nonostante non avessi più quell’aspetto “pelle e ossa” dei miei primi 10 anni di vita, rientravo sempre nella categoria dei magri.

   
Un professore di Educazione Fisica delle superiori tentò di far scattare in me un campanello di allarme. Alla fine di un allenamento di corsa nello stadio della Farnesina verificò la consistenza del mio giro vita e mi fece notare che c’era qualcosa di distonico rispetto al resto del mio fisico, prevedendo un futuro non molto roseo per il mio stato di forma.

 
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domenica 1 agosto 2010

Alzati e Corri - Il divano

Alzati e Corri
dal divano alla Maratona in 365 giorni
Capitolo - Il divano
   
Ho scoperto la corsa alla “tenera età" di 46 anni dopo aver attraversato un periodo molto delicato della mia vita, un periodo particolarmente stressante che aveva messo in discussione molte delle mie certezze e mi aveva costretto ad abbandonare ogni area di conforto in cui avevo precedentemente vissuto.
   
Avevo nonostante tutto reagito bene, ma a pagare questa situazione di stress era stato il mio fisico che aveva raggiunto livelli record di “rotondità”.  Non riuscivo più a controllare la mia alimentazione e andavo soggetto ad attacchi di bulimia che si scatenavano nelle ore notturne.
   
La sera “crollavo” letteralmente sul divano, che era diventato il mio più caro compagno di vita, l’unico luogo dove riuscivo a sentirmi veramente a mio agio, mettendo da parte i pensieri negativi e le paure che caratterizzavano la mia “nuova” quotidianità.
  
In quel periodo la mia principale attività fisica era costituita dai passaggi repentini dal divano al frigorifero, e dal frigorifero al divano: senza alcun dubbio, uno “sport” dove le calorie in entrata superavano di gran lunga quelle in uscita.
 
Non riuscivo a uscire da questo circuito vizioso, anche perché avevo una dotazione di alibi che compensavano i miei continui “sensi di colpa”, soprattutto relativamente all'assenza di una minima attività fisica. Il principale tra gli alibi che si adottano in queste situazioni è “non ho tempo” per poi rafforzarlo con un “sono troppo stanco”. 
 
Durante il soggiorno estivo nel mio paese di origine, Raggiolo, mi ero imposto delle lunghe passeggiate mattutine, stimolato in questo impegno dalla compagnia di familiari e amici. Tutte le mattine un’allegra brigata lasciava il paese per “avventurarsi” nei sentieri boschivi che lo circondano. Questo momento di “rinnovata” energia mi aveva fatto ben sperare, e una volta tornato a Roma, avevo tentato di dare continuità a questo atteggiamento positivo.
   
La “determinazione” ritrovata aveva lentamente lasciato il passo alla solita pigrizia e dopo un mese ero ritornato al punto di partenza. Forse non del tutto, perché in fondo, ma molto in fondo, qualcosa si stava agitando. Non potevo trattare in quel modo il mio fisico, accettare quello stato di malessere che stava diventando abituale, e dovevo anche considerare che sulla mia testa pendeva un’inquietante storia familiare.
  
Non mi riferisco a nulla di scabroso ma alla storia cardiologica della mia famiglia paterna che aumentava notevolmente i fattori di rischio per la mia salute. E sorvolo su tutti quei parametri che renderebbero particolarmente noiosa questa “narrazione”, quelle cose che rispondono a nomi tipo colesterolemia, ipertensione, glicemia, anche perché riuscivo a controllare questi parametri con un approccio molto astuto, evitando di farmi controllare da chicchessia.
   
Insomma, una reazione era necessaria e nel mio io profondo, ma molto profondo, qualcosa stava fermentando: serviva un elemento catalizzante in grado di trasformare questo fermento in qualcosa di solido e duraturo.
      
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